Nel perverso intreccio di notizie immagini commenti che ha caratterizzato la stampa istituzionale in questi ultimi giorni, specificamente sulla tragica vicenda di Boccea, a Roma, si nascondono (ma neanche tanto) le solite nefandezze di uno Stato e del governo che lo rappresenta, oramai totalmente adagiato sulla logica della dichiarazione a effetto e delle promesse che mai si riusciranno a mantenere.
Come avvoltoi, ci si avventa sul sangue ancora caldo delle vittime di una tragedia che immediatamente si trasforma in uno scontro inter-etnico.
Da un lato, la “cittadinanza stanca dei soprusi che reclama a gran voce sicurezza sicurezza sicurezza”; dall’altro una “etnia” che non solo terrorizza quotidianamente la popolazione con i suoi furti i suoi rapimenti di bambini e il suo criminale nomadismo, ma che per il solo fatto di esistere rappresenta una minaccia per il vivere civile.
E allora via al truce repertorio su ruspe sgomberi progrom di ogni genere e alla solita evanescenza di un centrosinistra, che amministra la città di Roma e presiede il governo nazionale, intento a rincorrere con affanno le politiche autoritarie e anti-migratorie della destra italiota.
Una rincorsa alla “identità” di cui ci si è resi conto può procurare molti voti.
D’altronde, nel clima di eterna campagna elettorale in cui vive il nostro paese, la tattica di soffiare sempre sul fuoco della disperazione e della emarginazione, quale essa sia, non può che rivelarsi vincente.
La pochezza delle rivendicazioni di una identità nazionale in confronto alla ineluttabilità – che porta in sé anche e soprattutto la tragicità – delle migrazioni, riesce a far breccia in quegli strati della popolazione abbandonati al degrado delle nostre periferie.
Dove, con scientifica precisione, sono stati via via tolti servizi, biblioteche, luoghi sani di aggregazione per fare spazio alla imprenditoria mafiosa.
Ancora una volta, per citare Eduardo Galeano, invece di combattere la povertà si combattono i poveri.
In quei luoghi dove però non arriva più la cultura, nel senso più ampio e umanistico si possa intendere, arriva quella sottospecie di Golem sociale che è la “politica” dei nostri tempi.
Castigatori di costumi e malefatte governative che solo fino a qualche minuto prima hanno contribuito a realizzare. Terminator mediatici addestrati a raccogliere consensi in nome dell’onestà, della legalità, della italianità.
Anche se scendono dalle valli padane e nell’ampolla sacra sostituiscono l’acqua del Po con l’olio di ricino.
Tuttavia, se ciò servisse a rivendicare una presunta purezza, ci sarebbe comunque poco da rallegrarsene; se sulle macerie della democrazia la mala-politica edifica la sua roccaforte non ci si può sfilare dalle proprie responsabilità. Una opposizione sociale seria e credibile deve affrontare ma soprattutto cercare di risolvere questa contraddizione.
Troppo spesso s’indugia sull’autenticità delle proprie posizioni a scapito di uno sforzo comune da impiegare per affermare un modello di società realisticamente alternativo a quello attuale basato su diseguaglianza arroganza e iniquità.
Il capitalismo fiorisce indisturbato sul terreno della frammentazione sociale e della mancanza di partecipazione.
E si riproduce grazie anche al prezioso sostegno delle mafie.
Che lo stato dice di combattere, e che invece utilizza solo per fare propaganda.
Celebra le vittime degli attentati, e nel frattempo istituzionalizza lo sfruttamento con il Jobs Act; demolisce il welfare e lo consegna alla privatizzazione lasciando la cittadinanza in balia della propria capacità di arrangiarsi; non chiude le frontiere ma tiene aperti CIE CARA e lager similari (la malavita ringrazia). Che altro è questo, se non mafia?
Ed è forse mafia quella che ha armato la mano che ha assassinato Mario Piccolino, “l’attivista anticamorra” di Formia, secondo la formula giornalistica con cui è stata riportata la notizia. Ed è proprio nelle pieghe di questa informazione supina, di cui si parlava all’inizio, che ritroviamo il vuoto di coscienza, civica politica e professionale, che alimenta l’odio verso qualsiasi forma di diverso e relega a notizia di quart’ordine un fatto terribile come questo.
Diciamolo subito e senza tanti giri di parole: Mario Piccolino non era Roberto Saviano. Con tutto il rispetto, ovviamente, per le condizioni in cui è costretto a vivere.
E sfortunatamente per lui, Mario Piccolino non è stato ucciso da un rom o da un “extracomunitario”. Avrebbe conquistato la ribalta della cronaca.
Combatteva la sua battaglia nel quasi anonimato di un ufficio e di un blog che denunciava sistematicamente le attività della criminalità organizzata intorno al mondo delle slot machine. Un sicario è entrato nel suo ufficio e l’ha freddato.
Ha avuto anche la sfortuna d’imbattersi, per così dire, in una dimensione mediatica occupata dalla canea contro “zingari” pirati della strada e attese spasmodiche per liste di politici “impresentabili”.
Liste stilate, detto en passant, dalla Commissione Antimafia.
Mario Piccolino era quello che si potrebbe definire un onesto lavoratore della civiltà.
Non era, e probabilmente non lo sarebbe mai diventato, una star della lotta alle mafie. Portava avanti la sua battaglia in una delle tante, innumerevoli, zone d’Italia “in cui la camorra è ormai organica al tessuto sociale”.
Benché quasi tutto abbia minimamente a che fare con il profitto sia infiltrato da camorra e ‘ndrangheta, dal business delle slot machine alla grande kermesse della expo – che in teoria dovrebbe essere il fiore all’occhiello del paese che la ospita – la risoluzione del problema non sembra altro che affidarsi ai superpoteri di un magistrato e ai sermoni di uno scrittore-intellettuale-tuttologo venerato come fosse una divinità.
Ed è proprio questo il punto. Roberto Saviano è un totem. Il solo criticarlo, equivale a una bestemmia. Una blasfemia.
Nei grandi temi che riguardano tutte le persone indistintamente, e la mafia lo è senza alcun dubbio, ci sarebbe bisogno di laicità e non della ipocrita morale tipica della retorica cattolica-patriottarda. D’altro canto l’Italia ha bisogno di qualcuno o di qualcosa che rappresenti il bene contrapposto al male. Di un comodo rifugio dove riporre gli sguardi sempre rivolti “dall’altra parte”. Dove riporre la nostra indifferenza.
C’è un disperato bisogno di un campione, riconosciuto e indiscusso, che tranquillizzi così le nostre coscienze che si tratti di rom immigrati o mafiosi.
L’autore di Gomorra, che tanto si era fatto apprezzare prima di lasciarsi incatenare al suo ruolo di Catone dei tempi moderni, dopo aver manifestato tutto il suo sostegno allo stato d’Israele, nella sua imperterrita e impunita persecuzione del popolo palestinese, impreziosisce la sua ascesa a totally embedded schierandosi al fianco dell’amministrazione USA nell’accusare il Venezuela di essere un narcostato.
Ipse dixit. Ormai è un oracolo che lo si interroga per qualsiasi dubbio attanagli lo scibile umano, dimenticando che ha costruito il suo complicato personaggio su scopiazzature e millantate amicizie. Come quella, tristemente nota, riguardante la famiglia di Peppino Impastato.
Piccoli dettagli che non hanno impedito però all’immaginario collettivo di farne una icona. Non è importante ciò che dice e soprattutto quali siano le sue fonti, guarda caso quasi sempre quelle di potenti governi e della loro stampa asservita; l’importante è che dica qualcosa. Dovesse dire che il sole tramonta la mattina e sorge la sera, la stampa e i predicatori televisivi di ogni risma si accapiglierebbero per assicurarsene l’esclusiva.
Senza scomodare Brecht, non abbiamo bisogno di eroi. Piccoli o grandi che siano. Artificiali o autentici che si voglia. Un paese che si adopera alacremente per distruggere la scuola pubblica e i diritti di lavoratori e lavoratrici e che riempie il suo mare di corpi inermi, rende un grosso favore alle mafie di ogni origine e provenienza. Concede loro la eternità.
Anche a quelle in doppiopetto alle quali ci siamo forse troppo disinvoltamente abituati. Quelle mafie che giocano in borsa e lucrano sulla pelle dei migranti.
Il capitalismo è una montagna di merda.
M.A.